mercoledì 14 gennaio 2015

"Freda: il Filosfo della disintegrazione"

Ringraziamo l'Avvocato Roberto Sforni, appassionato studioso di filosofia, per averci concesso di pubblicare interamente la sua ricerca sul pensiero di Franco Giorgio Freda.
 


 
 
 
Roberto Sforni
FREDA: IL FILOSOFO DELLA DISINTEGRAZIONE
“Un sentito ringraziamento per l’attenzione della Sua lettura.”
(Franco G. Freda)
 
L’opera di Franco G. Freda, La disintegrazione del sistema (Edizioni di AR)
è suddivisa in cinque capitoli, così intitolati:
  1. Analisi
  2. La fisionomia del vero stato
  3. Necessità di una metodologia operativa
  4. L’organizzazione dello stato popolare
  5. Auspicî
Il crepuscolo della nostra civiltà
 
“Quando finirà dunque questa società imbastardita
da tutte le dissolutezze, dissolutezze dell’intelletto, del corpo e dell’anima? Allora tornerà certamente la gioia sulla terra, quando questo vampiro bugiardo e ipocrita che si chiama civiltà sarà morto; si abbandoneranno il manto regale, lo scettro, i diamanti, il palazzo che crolla, la città che va in rovina, per andare a raggiungere la giumenta e la lupa.”
                            (G. Flaubert, Memorie di un pazzo)
 
 
Freda come Poe, Baudelaire, Goya, Saudek, Bacon.
Ciascuno, nel proprio ambito, narratore della tragedia dell’esistenza.
Cantori di una civiltà al crepuscolo, destino beffardo e ineluttabile di fisionomie umane deviate a uno stato di animalità.
Nessuno più di loro ha osato nel descrivere l’assurdo possibile, l’anello di congiunzione tra l’impossibile e il reale.
E’ una frontiera vaga incomprensibile ai più, che sfocia nell’immagine del caos, così trascendente e naturale quanto incredibilmente moderna, attuale e attualizzabile.
Nella poesia Il Corvo di Edgar Allan Poe, a mezzanotte, uno studente è ancora in piedi: anima inquieta e sognante, ormai stanco di “meditare su bizzarri volumi di un sapere remoto” , sente picchiettare alla finestra. Pensando al vento apre le imposte. Un “Corvo maestoso dei santi tempi antichi” entra così nella stanza appollaiandosi su un busto di Pallade. I suoi occhi sono infuocati, inizia a parlare, il tono è grave e quasi sovrannaturale, ricordi che si perdono in una notte di solitudine. Pronuncia un ritornello: “Mai più”. L’anima dello studente non si solleverà mai più dall’ombra sul pavimento di quel “diavolo sognante”. Quello studente è straordinariamente simile al giovane Freda, con il capo reclino fino a tarda notte sulle opere di Platone, Aristotele, Spinoza e Nietzsche, alla ricerca di uno spiraglio di luce nelle tenebre.
Charles Baudelaire descrive così la pittura di Goya, nella poesia I fari: Goya, incubo pieno di cose sconosciute,
di feti messi al fuoco delle streghe ai raduni, di vecchie che si specchiano e bimbe tutte nude, che s’aggiustan le calze per tentare i demoni!”
Baudelaire, supremo poeta del peccato, del satanismo e delle sensazioni più voluttuose, dei sublimi versi “Ecco la sera affascinante, amica del criminale; viene come un complice, a passo di lupo; il cielo si chiude lentamente come una grande alcova e l’uomo impaziente si muta in belva atroce”, ricorda in particolare due incisioni straordinarie di Goya. La prima ritrae un paesaggio fantastico, misto di nubi e rocce. Teatro di una furibonda lotta fra due streghe sospese in aria. Una è a cavallo sull’altra, la bastona e la soggioga. Tutto il luridume morale, tutti i vizi che mente umana possa concepire sono impressi sui due volti.
La seconda incisione rappresenta un essere, un infelice che vuole ad ogni costo uscire dalla tomba. Demoni malefici, miriade di deformi gnomi lillipuziani, premono con tutto il loro peso sul coperchio della tomba dischiusa. I vigili custodi della morte alleati contro l’anima recalcitrante che si ostina a combattere una battaglia impossibile.1
Queste visioni da incubo non possono non far pensare alle descrizioni in cui Freda mette a nudo la laidezza e l’estrema dissolutezza della società in cui viviamo. “Lo svuoterei bene, questo stivale di sterco!…”.2
E’ la stessa decadenza espressa dalle fotografie di Jan Saudek, una fiera delle vanità in cui non c’è vergogna ma piacere di resistere prima che tutto crolli. Uno dei tagli più frequenti è quello in cui si vede una finestra aperta oltre la quale vi è un muro scrostato su cui batte una luce radente. Anche, talvolta, una veduta di cielo o di città notturna, come l’apertura verso un nuovo mondo. Saudek retrodata artificiosamente di un secolo le sue opere, Freda potrebbe fare l’esatto contrario ponendo le sue descrizioni avanti nel tempo, in continua fuga, posticipandole di quarant’anni. Chi se ne accorgerebbe?
Francis Bacon faceva iniziare la sua storia artistica da Tre studi per figure ai piedi di una Crocifissione, opera di una terribile violenza espressiva. Non rappresenta alcuna azione violenta, così come la prosa frediana, ma qualche indefinita violenza inumana, accaduta in uno spazio e in un tempo che non vediamo.
Gli elementi umani e bestiali delle figure, confusi in una comune deformazione, sono così impenetrabili ed ambigui da non consentire l’individuazione di alcun significato esplicito.
Freda scrive nella piena consapevolezza delle implicazioni espressive del suo stile: asciutto, a tratti carnale, tanto raffinato da non comunicare più nulla di intelligibile, per colpire il livello più vivo ed intuitivo della mente.
Laddove agiscono le sensazioni, quali modi di conoscenza che precedono la logica e sono più profondi di essa.
 
La dimensione nascosta
 
 
     “Se volete arrivare in alto, usate le vostre gambe!    
       Non lasciatevi ‘trasportare’ in alto, non sedetevi
       su dorsi e teste altrui!”
       Tu salisti a cavallo? Cavalchi veloce verso la
       tua meta? Bene, amico! Ma il tuo piede storpio è     
       con te sul cavallo!
       Quando sarai alla meta, quando salterai da
       cavallo: proprio al vertice della tua ‘altezza’, o  
       uomo superiore, – inciamperai!”
             (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
 
 
E’ possibile accostare il pensiero di Freda alla filosofia politica? La risposta non può che essere affermativa, se si considera che la filosofia politica contemporanea, rappresentata ai più alti livelli da Schmitt, Arendt e Rawls, ha messo in luce la complessità del fenomeno politico, ponendo un’attenzione particolare alla questione del rapporto tra etica e politica, nell’ambito della concezione dello Stato ideale.
Esaminando approfonditamente l’opera oggetto del presente studio, La disintegrazione del sistema, è possibile attribuire a Freda quello spazio a cui ha pieno diritto all’interno del pensiero filosofico in senso lato. Potremmo anche affermare, riferendoci ad Aristotele, che si tratta di una filosofia non solo etico-politica ma pratica, in quanto, come vedremo, caratterizzata dall’azione, sia come obiettivo che come oggetto.
Il pensiero frediano, caratterizzato da una spiccata capacità di leggere le situazioni storico-politiche, è in realtà un pensiero estremamente complesso e cercare di comprenderlo significa accostarvisi con la massima apertura e disponibilità intellettuale, abbandonando pregiudizi che impedirebbero di riconoscerne l’originale nucleo teorico – concettuale, che lo distingue da altre dottrine politiche, come l’anarchismo, il comunismo e lo stesso fascismo, rendendolo più ampio di queste. La filosofia frediana è infatti sistematica, in quanto si pone l’obiettivo di costruire un sistema di pensiero che dia ragione di tutto, che non si limiti infatti all’analisi degli aspetti etico-politici posti alla radice del vero Stato, ma comprenda filosoficamente le basi anche del futuro sistema economico – finanziario, educativo e giudiziario della creatura statuale che dovrà vedere la luce, in contrapposizione all’assenza di governo e di giustizia che caratterizzano l’epoca attuale, artificiosa e corrotta fino alle viscere.
Lo Stato rappresenta per Freda, così come per Platone e, successivamente, per Hegel, il momento culminante dell’eticità, è la sostanza etica consapevole di sé. Di conseguenza lo Stato non implica una soppressione della società civile, ma lo sforzo di indirizzare i particolarismi verso il bene collettivo. Avendo consapevolezza di sé come totalità etica, lo Stato non riconosce al di sopra di sé nessuna autorità, fondando la sua sovranità e la sua ragion d’essere in sé medesimo e non nel popolo. Ed è lo stesso Hegel a costituire il vero denominatore comune ideologico delle ali estreme di destra e di sinistra, di cui Freda auspica l’unione in chiave anti-sistema. Hegel rappresenta quella dimensione nascosta e non evidente alla maggioranza, che conduce al superamento dell’ideologie estreme nella loro forma storica.
A differenza del pensiero anarchico, pur presente in alcuni aspetti della filosofia frediana  – come il furore apocalittico bakuniano, la ciclopica volontà di distruzione nonché la convinzione secondo cui il terrorismo non assume una valenza fondamentale nella formazione dello Stato, bensì occasionale, secondario rispetto alla propaganda politica e, per lo studioso padovano, motivato solo dall’esigenza di sferrare il colpo mortale all’infezione borghese – ,1 l’autodeterminazione dell’individuo, il suo pieno e totale diritto di scelta, di consenso o di rifiuto, per Freda devono essere subordinati alle esigenze di equilibrio dello Stato. Uno Stato aristocratico che rifiuta il liberismo e il proletarismo marxista al tempo stesso, il conformismo e la massificazione, alla ricerca di una dignità perduta, di una ribellione morale in cui il ritrovamento di una autonomia della ragione dell’uomo da ogni forma di servitù intellettuale, non può prescindere dal superamento di ogni afflato di individualismo ed egoismo.
Lungi dal rifugiarsi in un mondo frutto di fantasia, perduto in un lontano passato o in un ipotetico futuro, il pensiero frediano è essenzialmente concreto, perché si muove da una ragionata critica dell’esistente, ed è l’esistente a dover essere disintegrato.
 
 
“Quando entrava nella mia stanza, restando rigorosamente in piedi, era come se trasmettesse un’energia misteriosa e malefica. Ha presente quelle figure paranormali e carismatiche che fanno agitare la natura al loro cospetto? Foglie che si muovono, specchi che si rompono, temperatura che sale inspiegabilmente di alcuni gradi? Ecco, questo era l’effetto che mi faceva Freda.” *
 
 
I. Décadence
 
 
“Perché vogliono la pace, i borghesi? Forse che riesce loro allettante la  promessa di estinguersi sopra un letto, a ottant’anni, colpiti da paralisi e marciti dai tumori?...La pace serve loro per vegetare in condizioni di benessere materiale, procreare altri esseri come loro infetti…Sì, certo! Anche noi desideriamo per loro una  pace: una pace stabile, duratura?...E’ troppo poco. Noi garantiremmo loro di più: una pace eterna, in posizione orizzontale, piatta come le loro più autentiche tendenze. Un letamaio razionale,  ‘naturale’ – e, sopra tutto per noi, funzionale.”[1]                       
 
 
   L’istinto primario che ha causato la stesura di questo commento a La disintegrazione del sistema di Franco Freda, nasce dal convincimento più profondo che il momento di decadenza a cui una parte dell’umanità sta sopravvivendo – il lettore noti che, dolosamente, non parlo di vita ma di sopravvivenza  -
comporta l’ineluttabile necessità di comprendere, per usare le parole di Freda, “senza puerili alibi borghesi”, gli errori trascorsi – ebbene sì, siamo colpevoli ! – le ragioni fondamentali che hanno potuto permetterli  e il dovere di delineare una strategia comune di lotta, che veda il popolo marciare unito verso un unico obiettivo: l’abbattimento completo e definitivo del capitalismo e del sistema borghese che da sempre lo sostiene.
   Fino a pochi sciagurati mesi or sono, siamo stati cullati nell’idea che l’Europa, definita squisitamente da Freda “vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli e che ha contratto tutte le infezioni ideologiche” – socialmente, politicamente e culturalmente americanizzata – rappresentasse un vero baluardo a difesa dei pretesi valori della civiltà occidentale, senza renderci conto che questa variegata entità, serva degli Stati Uniti d’America, presto o tardi sarebbe franata con il castello di menzogne su cui si fondava, trascinando con sé i popoli che, con insistita miopia, in essa avevano ostinatamente creduto.2
   E’ un dato di fatto che oggi, come e ancora più del momento in cui Freda pronunciava il suo celebre j’accuse, parlare di Europa se non in termini di connotazione geografica, non abbia alcun senso. Ed è proprio per questo che oggi possiamo identificarci maggiormente nel pensiero rivoluzionario guevarista che in quello di un guitto francese che ordina l’attacco alla Libia.
   E per le stesse ragioni troviamo più vicine ai nostri desideri di lotta e di vendetta le urla dei popoli che chiedono da decenni il riconoscimento della propria autodeterminazione e non degli Stati che, per mantenere inalterati i propri equilibri, dalle loro comode poltrone delle Nazioni Unite, votano ancor’oggi vergognosamente a favore dell’embargo a Cuba.3
 
***
 
   Nondimeno, dobbiamo considerare terminato il tempo di trastullarci nella convinzione che la soddisfazione dei nostri bisogni fisici rappresenti il benessere: la nostra è la democrazia imposta dall’economia capitalista e il benessere è solo quello dell’uomo-borghese. Non è il benessere di tutti noi.   
               E’ il ben pasciuto suino capitalista che trova sazietà nelle sofferenze del popolo.
   L’umanità non rappresenta uno sviluppo verso il migliore, o il più forte o il superiore, così come da sempre si crede. Il progresso non è altro che un’idea moderna, vale a dire un’idea sbagliata. Il cittadino europeo di oggi rimane, nel suo valore, profondamente al di sotto dell’europeo del Rinascimento; sviluppo ulteriore non è assolutamente, per chissà quale necessità, elevazione, crescita, rafforzamento. “Di questa modernità noi fummo malati, della pace marcescente, del vile compromesso, di tutta la virtuosa immondezza del moderno sì e no. Questa tolleranza e largeur di cuore, che perdona perché tutto comprende, è scirocco per noi. Meglio viver tra i ghiacci, che tra le moderne virtù e altri venti meridionali!…”.1
   Come scrive Zigmunt Barman:
        “la libertà di pensiero, di espressione e di associazione ha raggiunto livelli senza precedenti ed è più vicina che mai a diventare realmente illimitata. Il paradosso, tuttavia, è che questa libertà giunge in una fase in cui se ne può fare un uso limitato, e in cui le possibilità di trasformare la libertà dalla costrizione in libertà di agire sono poche”.
   Non è un caso che una delle espressioni che maggiormente sta distinguendo la nostra epoca è la seguente: non ci sono alternative. La conseguenza di questa credenza è ovvia: se mancano le alternative (alla democrazia, al capitalismo, alla società multirazziale, alla globalizzazione, allo strapotere dei mercati, ecc.), si sarà pure liberi, ma liberi per che cosa? Una libertà incapace di percorrere altre strade, una libertà totalmente in linea “con i tempi”, è vera libertà o non, piuttosto, il suo esangue simulacro?   
   Non libertà, allora, ma la sua contraffazione: è questo il volto ultimo della nostra epoca.
   In altre parole: resta solo la libertà intesa come non-interferenza (nel senso che nessuno interferisce con le scelte del legislatore, anche se non le gradisce e gli esempi, nella società contemporanea possono essere molteplici), come non-dominio (nel senso che nessuno domina chi ci comanda), come assenza di vincoli, libertà-negativa, tipica del liberalismo, in contrapposizione alla libertà-positiva (libertà di fare, di agire), che presuppone uguale diritto a pari libertà. Ma con ciò risulta evidente che il principio di riferimento non è più la libertà bensì l’uguaglianza, ovvero la libertà finisce per essere inevitabilmente sottomessa all’uguaglianza.2
 
***  
 
 Mai come ora le parole di Marx si rivelano profetiche:
      Il potere politico moderno non è altro che un comitato, il quale amministra gli affari            
        comuni della classe borghese nel suo complesso[]Dove è giunta al potere, la borghesia 
        ha  distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci[]e non ha lasciato tra uomo e
        uomo altro  legame che il nudo interesse…”.3
   E’ uno spettacolo doloroso, orripilante, quello che ci sta di fronte: la degenerazione dell’uomo. Intendo degenerazione, già lo si indovina, nel senso di décadence: io affermo che tutti i valori in cui l’umanità compendia in questo momento la sua idealità suprema sono valori di décadence.4
   I lavoratori quotidianamente assistono alla dissoluzione della  propria dignità personale, sacrificata sull’altare di un mai precisato interesse al miglioramento delle attività produttive.   
   E’ il momento del supremo non-essere di diritti e libertà faticosamente conquistate oppure accordate, frutto di decenni di lotte sindacali, di oceaniche manifestazioni di piazza: i datori di lavoro, con l’appoggio politico del comitato d’affari di cui parlava Marx, hanno introdotto una forma di cinico sfruttamento, vergognosamente spudorato, in luogo di uno sfruttamento prima velato da illusioni religiose e politiche. Lo stesso sfruttamento che comporta la riduzione del corpo a cosa, la mercificazione dell’uomo. Il sesso come obbligo e bruttezza, metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti.5
 
 
   Ancora un parola sul concetto di benessere, perché certamente il borghese o qualche sparuto gruppo di lavoratori – quelli che ancora fingono di ignorare quanto sta accadendo - potrebbe sollevare qualche timida obiezione alle nostre convinzioni, argomentando che il sistema capitalistico è andato di pari passo con il progresso.
   A questi risponderemmo che, l’indubbia modernizzazione – il cui concetto non coincide con quello di miglioramento – degli strumenti di produzione e di scambio, verificatasi nel corso dei secoli ed in particolar modo dalla Rivoluzione industriale – peraltro estesa a tutti i paesi del mondo - trova la sua origine nell’essenza stessa del sistema capitalistico, il quale non avrebbe potuto continuare la sua esistenza ed il suo logorante sfruttamento dei lavoratori, senza rivoluzionare i mezzi di produzione.
   Il progresso è pertanto una condizione di vita o di morte del capitalismo, ma a pagarlo a caro prezzo sono i lavoratori, con l’attuale messa in discussione della propria condizione sociale ma, soprattutto, con la catastrofica attuale crisi economica, frutto di quella che Marx definisce “l’epidemia sociale della sovrapproduzione”.
   Il fatto che, in alcune circostanze, la società borghese conceda agli sfruttati di vedere migliorate le proprie condizioni di vita non implica che i presupposti egoistico – economistici su cui la società borghese si fonda siano venuti a mancare – i dominati non si illudano! – bensì hanno solamente cambiato veste, assumendo modalità di forza diverse dalle precedenti.
   Il capitalista conosce perfettamente i bisogni sterili e superficiali dei lavoratori, sa che aumentando il salario di quel poco che consentirà loro di acquistare i beni prodotti dallo stesso capitalista, terrà a freno eventuali rivendicazioni salariali o relative alle condizioni di lavoro.
Sottoscriverà un arruffato accordo con i sindacati – “No. Queste porcherie son vecchie come il mondo! Il popolo non è più una puttana. Tre passi insieme e abbiam ridotto in cenere la tua Bastiglia” – sublime Rimbaud!
   In questa condizione, il lavoratore non porrà in essere alcun tentativo di sostituire il proprio governo a quello dei borghesi, nessuna contestazione, tranne in alcuni momenti in cui il capitalista, consapevolmente, consentirà ai lavoratori, che Freda paragona ai dei miti buoi, di muggire per rivendicazioni salariali: a questi, talvolta, sarà consentita l’illusione di comportarsi come liberi tori e verrà loro concesso di danneggiare la stalla.1
 
***
 
 Freda sostiene inoltre un’interessante tesi per confutare la falsa idea di una pretesa contrapposizione delle democrazie borghesi da quelle socialiste. Secondo Freda, mentre nella società borghese il comando di una nazione è in mano a chi detiene il potere economico, attraverso il quale può acquisire quello politico – visione di straordinaria attualità, comanda chi possiede – nelle democrazie socialiste si parte dal processo inverso per raggiungere il medesimo obiettivo: chi detiene il potere politico acquisisce, come distorto privilegio della funzione di comando politico, la disponibilità dei mezzi di produzione.
   In entrambi i tipi di società, il potere si esprime esclusivamente in termini di ricchezza e non potrebbe essere diversamente, allorquando si attribuisca allo Stato soltanto la funzione di ordinatore di ricchezza. E’ lo Stato stesso ad eccitare i suoi concittadini alla ricchezza, ad impadronirsene freneticamente, per la soddisfazione di propri bisogni fisici e spirituali.
   La regola economicistica del processo produzione – consumo è presente in entrambe le società.[2]
 
      “Di fronte al caos della modernità
     unica salvezza è la forma”.
 
 
II. Éternité
 
 
“Non sono un Maestro. Maestri sono stati Evola, Platone, per esempio. Io sono stato solo un ‘ripetitore’ di teorie che altri hanno formulato. Quanto a ‘cattivo’ non credo di esserlo mai stato. Sono stato messo nel cattiverio dal Sistema, a volte con accuse ‘giuste’ (come l’accusa di associazione sovversiva per la quale sono stato condannato, di cui riconosco con fierezza il parziale fondamento) e accuse ingiuste (come quella di aver organizzato la strage di Piazza Fontana). Di cattivo nel mio operato non riconosco nulla: ho mirato a tradurre in pratica le teorie di maestri della cultura europea.” 1                       
 
  
   Ispirandosi alla dottrina platonica dello Stato filosofico, Freda ritiene che dal fondo di questo limaccioso abisso, emerga una razza di uomini insensibile ai bisogni effimeri determinati dal capitalismo. “Saranno chiamati distruttori e spregiatori del Bene e del ale. Ma essi sono i mietitori e i festeggiatori” chiosava Nietzsche.
   Questo nucleo di eletti, esseri liberi che Freda definisce asceti della politica, costituirà l’asse portante del vero Stato – uno Stato visto come realtà assoluta, come valore, che non necessità di supporto storico perché trascende tutto ciò che è immediatamente terreno e umano.
   Per questa razza eletta il fine dell’uomo non dovrà essere quello di mantenersi vegetando, badando solo a conservare sé stesso nelle migliori condizioni fisiche, ma vi dovrà essere dell’altro e proprio questo altro darà significato e valore all’esistenza.
   Il regime migliore infatti, secondo Platone, è quello in cui l’autorità è fondata sulla conoscenza della gerarchia dei beni, a prescindere dagli interessi particolari dei singoli cittadini.
   La legge rappresenta soltanto un baluardo contro l’estrema degenerazione; ma ciò che conta è la purezza di chi esercita l’autorità. E l’Accademia platonica voleva essere una scuola del carattere, una fucina di “uomini regali”.
   La posizione di Freda, unico esempio di platonismo politico all’interno della cultura italiana contemporanea, è peculiare in quanto propone l’uscita dall’alienazione capitalistico-borghese, prodotto della società moderna, riferendosi ad un paradigma non – moderno.2
   La percezione che Platone e i platonici ebbero dell’idea della politéia non fu utopica.
   Per Platone, la vera politéia era il modello eterno, fisso nei cieli, pertanto il vero Stato non era un prodotto della fantasia, ma un modello politico ontologicamente fondato.
   Non sarebbe corretto pertanto valutare in termini di utopia il modello di Stato delineato nella Disintegrazione del sistema, in quanto anch’esso si fonda su una ontologia per la quale l’ordine politico retto non è mai il frutto né della forza, né dell’accordo, né di interazioni umane più o meno casuali e, nemmeno, è frutto dell’immaginazione.
   L’intuizione di Freda consiste infatti nell’aver espresso un’analisi assolutamente ineccepibile e ancor oggi validissima di critica dell’organizzazione capitalistico - borghese della società, vista come ostacolo alla realizzazione del “vero Stato”.
    Il mito dello Stato, ben lungi dall’essere frutto di una semplice ideologia o di una concezione cerebrale o intellettualistica, pone le basi di un sistema etico – non legato a puerili dettami moralistici da sempre detestati da Freda – senza neppure il bisogno di leggi positive, in quanto ogni individuo non dovrà rispondere a comandi impartiti dall’esterno ma obbedire alla propria attitudine interiore. Uno Stato concepito come centro di potenza e non soprastruttura inerte che non avrà come obiettivi la ricchezza o il benessere individuale, bensì la felicità intesa come armonia dei vari componenti il corpo dello Stato (l’eudaimonìa degli antichi Greci), attuazione in termini politici di un principio impersonale, di una norma facente capo a quel diritto naturale delle genti eroiche, in cui il significato di natura non si esaurisce all’elemento, fisico, funzionale, ma acquista valore di termine normativo.
   Il dualismo che Platone aveva teorizzato tra verità e apparenza, anima e corpo, si riflette anche nella concezione politica. Uno Stato che assegni ai suoi concittadini funzioni incompatibili con il livello di sapienza da essi raggiunto risulta disarmonico e rischia facilmente di degenerare.        
   Fedele interprete del pensiero del grande filosofo greco, Freda interpreta la società in analogia ad un organismo vivente. E mentre per Platone il compito di far rispettare la sopra citata armonia tra le parti spetta ai filosofi, Freda attribuisce il compito di governare a questi asceti che hanno scelto di combattere strenuamente le democrazie borghesi – ma democrazie fino a che punto? –  scevri da qualsivoglia viscida devozione intellettuale.
 
***
  
   L’umanità, sostiene Freda, è chiamata a sproletarizzarsi e sborghesizzarsi.
   E’ un momento determinante del pensiero frediano: con questa teoria lo studioso padovano si pone come radicale spartiacque della storia e della cultura che la dicotomia borghesia – proletariato ha rappresentato fino a questo momento.
   Per comprendere meglio la specificità della teoria frediana, dobbiamo fare un passo indietro.
   Tutti i settori produttivi stanno ora vivendo una drammatica situazione di stallo.
Marx asserisce che quando la società arriva a possedere troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio, il sistema implode, non essendo più in grado di contenere e di controllare la ricchezza creata dalle forze produttive.
   E la borghesia a questo punto ha solo una via d’uscita per superare la crisi: da un lato dovrà eliminare più forze produttive possibili, dall’altro cercherà di espandersi occupando nuovi spazi di mercato e sfruttando in modo più tentacolare quelli già disponibili, con il risultato di aumentare la portata e la virulenza della crisi.
   Come ben sappiamo, la dottrina marxista poneva come priorità la lotta politica del movimento operaio, considerando la conquista del potere da parte della classe operaia come il superamento della società borghese e della divisione tra le classi.
   La dittatura del proletariato, ossia la costituzione della classe operaia in classe dominante, la distruzione dello stato borghese e la sua sostituzione con lo stato proletario, erano considerate da Marx come l’inevitabile fase di transizione per attuare il passaggio al comunismo.
   Per Freda invece borghesia e proletariato rappresentano facce della stessa medaglia, risultanze – o scorie come le definisce – dell’unico processo avviatosi con la decomposizione dello Stato.
   Nessuno dei due termini potrà vivere dissociato dall’altro, perché ad entrambi, sfruttatori da una parte e sfruttati dall’altra – questo è il modello di società moderna in cui viviamo – è imposta la schiavitù del denaro.1
   Inventato come mero strumento di transazione, il denaro è stato trasformato (o meglio deformato) in un bene di accumulazione. E quanto più aumentano le transazioni, tanto maggiore diventa la possibilità della sua accumulazione, specie da parte di chi ne determina il valore.
   L’eccitazione parossistica ai consumi, la dilatazione abnorme del bisogno, la ricerca ossessiva di nuovi mercati sono gli obiettivi profani della strategia totale disegnata dalla plutocrazia mondialistica.
   Il denaro anima qualsiasi attività del mondo attuale.
    Stiamo assistendo al ribaltamento radicale della verità: la Divinità, che nelle culture e società tradizionali orientava e ordinava gli atti più comuni dell’esistenza, è stata soppiantata dall’idolo più profano che sia mai stato concepito, il denaro. Le menti e le pedine del gioco plutocratico mondialista risultano mosse da una forza che trascende i fenomeni e la volontà stessi.
   Ovvero, siamo nel regno di Lucifero e l’idolo denaro si rivela fattore non solo di disordine, ma di un ordine diverso e perverso.
   Il disegno però non appare ancora completamente attuato. Lo sarebbe, invece, quando l’intera popolazione terrestre degenerasse in consumatori senza razze, senza radici né storia, deculturati e regrediti a un livello bio-psichico elementare.2
 
***
   
 
   Freda va oltre Marx, citando un brano tratto dalla Volontà di potenza di Nietzsche:
              un giorno gli operai vivranno come, oggi, i borghesi, ma sopra di loro,
               più povera e più semplice, la casta superiore. Essa possiederà la potenza.”
   A questa potenza, intesa come “pienezza d’essere”, viene associata la sobrietà, l’autodisciplina ed uno Stato guidato da politici di tale levatura è, effettivamente, uno strumento per reintegrare l’uomo nella realtà divina. Rendere l’uomo libero significa educarlo alla disciplina interiore e al rispetto del proprio piano gerarchico. Per realizzare questa immagine di Stato, nell’età contemporanea, è necessario previamente recidere le radici borghesi della società capitalista. Nell’opera di Freda la struttura dello Stato popolare comunistico corrisponde a questa finalità: l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione elimina le classi – fenomeno tipicamente capitalistico e borghese – facendo emergere la VERA politica, il VERO Stato.
   L’importante, secondo Freda, non è che una nuova classe salga al potere, ma una nuova umanità.
   Per questa ragione, come afferma Freda “abbiamo rifiutato di vedere nell’operaio l’esponente di una nuova classe, di una società, di una nuova economia”. L’operaio o è nulla o è qualcosa di più di tutto ciò: il rappresentante di una determinata figura la quale agisce secondo proprie leggi, segue una propria vocazione, partecipa a una peculiare libertà […]. O la vita dell’operaio sarà autonoma, espressione diretta del suo essere e, perciò, sovranità, ovvero non sarà altro che lo sforzo per assicurarsi una parte nel campo dei vecchi diritti e degli insulsi piaceri di un’epoca esaurita.”
   In questa fase crepuscolare del potere egemonico borghese, i cui ultimi duecento anni di storia hanno fatto comprendere coma sia stata la brama di denaro a condurre gli uomini ai comportamenti più corrotti e dissoluti, Freda propone un modello statuale che riconosca come suo fine precipuo quello di armonizzare i rapporti economici e sociali tra i suoi membri.
   Di fronte all’attuale miseria umana, Freda si assume il compito di attraversare la modernità, pur senza parteciparvi e tanto meno appartenervi, mediante un operare che si sviluppi dall’intersezione di due tendenze: l’una verticale (per superare la modernità), l’altra orizzontale (per fenderla e, aggiungo io, trafiggerla).
   Difendere la dignità essenziale delle proprie istituzioni anche in campo economico e finanziario, dove il fine dell’economia è sopperire alle necessità della Nazione e quello della finanza di razionalizzare lo scambio delle merci, dovrà costituire uno dei fini irrinunciabili del vero Stato.
   Una Nazione che non persegua tale fine è condannata inesorabilmente alla più triste delle notti.
    
                                                                 
“Non avventarti contro le tenebre,
  mantieni accesa la lanterna”
 
III. Chant de guerre
 
 
“Ma i governanti italiani, che tanto servilmente e frettolosamente hanno ratificato il trattato di Maastrìcht, non hanno capito in quale trappola hanno messo l’Italia?
Lo hanno capito benissimo, tuttavia chi detiene veramente il potere ha loro concesso di rubare a piene mani perché avrebbe avuto, come contropartita, il dominio (e il possesso) della nostra Nazione. Adesso, esaurito il oro compito, vengono defenestrati per fare posto ad altri più sicuri emissari del mondialismo.” 1                       
 
   Dopo aver  tracciato la fisionomia del vero Stato, Freda analizza le modalità operative finalizzate alla sua realizzazione concreta. Uomo di pensiero e di azione al tempo stesso, Freda rifiuta istintivamente di considerare coloro i quali, incapaci di contrastare il degrado sociale e politico esistente, dichiarano di aderire, solo a parole, all’Idea del vero Stato, senza peraltro avere il coraggio di porre in essere alcun comportamento in grado di realizzarla storicamente.
   Fatta questa premessa Freda, con una magistrale espressione afferma che la condizione – non sufficiente ma, comunque, necessaria – per porre gli elementi di fondazione del vero Stato, è la EVERSIONE di tutto ciò che oggi esiste come sistema politico.2 A toi, Nature, je ne me rends.
   La distruzione del mondo borghese dovrà avvenire in tempi rapidi, attraverso l’esasperazione del lavoro di rottura degli equilibri presenti nell’attuale fase politica. Soluzioni intermedie o a lungo termine non saranno possibili, non dovranno rimanere nemmeno le macerie di un sistema capitalistico che Freda paragona a un male inguaribile contro il quale non esistono terapie né operazioni chirurgiche.
   Occorre secondo Freda“accelerare l’emorragia e sotterrare il cadavere”. Senza preoccupazione per il dopo, non esistono salti nel buio. Solo rinascite e visioni luminose.
   Ogni genere di ricchezza materiale dovrà essere assolutamente subordinata allo Stato, affinché quest’ultimo possa servirsene all’atto della sua costituzione e organizzazione.
   Più radicale del discorso di Platone – il quale si limitava ad abolire la proprietà privata per le ‘caste’ dei filosofi e dei guerrieri, onde prevenire l’insorgere del particolarismo – , il discorso di Freda prevede l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il capitalismo scompare con la scomparsa delle classi e queste – come già notava Marx – scompaiono con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Solo così potrà essere realizzata la giustizia ed il potere potrà effettivamente essere esercitato da coloro che sanno realizzarvi l’idea di giustizia; sarà così spezzato il dominio degli interessi di classe.
  
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La politica economica del vero Stato dovrà così, conseguentemente, essere condotta sulla base di criteri opposti a quelli dello stato capitalistico. Il rapporto produzione-consumo tipico dell’economia vigente fino a questo momento (il cui carattere espansionistico e patologico della produzione suscita ed esaspera il consumo) sarà capovolto, privilegiando la PROGRAMMAZIONE DEI CONSUMI rispetto alla produzione.
   L’attuale pluralismo degli istituti bancari sarà eliminato a beneficio di una Banca di Stato che garantirà l’equilibrio funzionale dell’economia dello Stato, senza alcun carattere creditizio. Una banca di Stato che emetterà una moneta di Stato, il cui potere d’acquisto sarà garantito esclusivamente dalla ricchezza economica dello Stato popolare.
   Il sistema finanziario oggi dominante ha origine dalla mescolanza di privato e di pubblico e la sua imposizione trae origine dall’accettazione generale di regole truffaldine e di falsi luoghi comuni.
   Il sistema creditizio (ossia dei prestiti che sono concessi in misura multipla rispetto alle disponibilità reali delle banche), delle carte di credito e di altre diavolerie finanziarie, determina, in effetti, il crollo del potere d’acquisto del denaro. Effettuando una disamina che si rivela di stupefacente attualità, alla luce delle cause che hanno condotto, alla fine del 2008, all’attuale crisi mondiale, Freda afferma che concedere prestiti, senza prelievo da una ricchezza reale, è come stampare banconote senza alcuna nuova produzione che lo giustifichi. Un’emissione di denaro che si basa su un’astrazione (la promessa di pagamento), diviene così una truffa ai danni di quella parte di comunità nazionale che lavora.
   Così in un mondo stracolmo di merci, l’unica cosa che manca è il denaro concreto per acquistarle: a causa di finanziamenti accordati ad attività distruttive di ricchezza (speculazioni) e a scapito di iniziative produttive economiche valide, ma con redditività a più lungo termine per i finanziatori.
   Quindi lo Stato nazionale deve tornare ad essere l’unico creatore della moneta legale, poiché solo uno Stato sovrano del denaro può garantire la migliore ripartizione delle risorse, superando l’iniquità rappresentata dalle macroscopiche differenze economiche tra i membri della comunità nazionale – che vanno ben oltre i meriti socialmente tutelabili. Infatti, il suo asservimento all’oligarchia mondialistica (sistema bancario mondiale) obbliga lo Stato a subire quel controllo dei prezzi (quindi della produzione e del consumo) imposto dall’oligarchia plutocratica, che genera non solo arricchimenti illeciti, ma anche e soprattutto disperazione, disoccupazione, e l’allontanamento dell’uomo dalla dignità che gli deve essere conforme.1
  
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   Prima di proseguire nell’analisi degli ulteriori elementi che devono caratterizzare il vero Stato, ritengo particolarmente illuminante, ai fini della presente trattazione, riportare pressoché integralmente le riflessioni economiche e finanziarie di Freda che, sebbene pronunciate prima dell’entrata in vigore della moneta unica, anticipano ancora una volta gli eventi fino a giungere alla spirale disastrosa in cui il continente europeo e, in particolare il nostro paese, è stato risucchiato.2
   Il sistema economico e monetario europeo previsto dal trattato di Maastricht risulta caratterizzato dal libero scambio delle merci, dalla libertà di movimento dei capitali e dai tassi fissi dei cambi tra le monete.
   A queste tre caratteristiche si deve aggiungere l’autonomia monetaria, ossia la facoltà per ogni paese (cioè per ogni banca centrale) di condurre una politica monetaria che abbia come obiettivo la stabilità dei prezzi.
   Questo stato di cose è incoerente perché non è possibile pretendere di conservare l’autonomia economica accettando dei tassi fissi. L’incoerenza è data dal fatto che quando un paese, per ridurre le tensioni inflazionistiche, aumenta i suoi tassi di interesse, attira i capitali e forza gli altri paesi a seguirlo, almeno se la scelta viene compiuta per non cambiare le parità monetarie.
   Questo fenomeno di propagazione e il suo specifico effetto deflazionistico, a lungo termine, mettono in discussione il policentrismo monetario con parità fisse, che durerà sino a quando non sarà iniziata la fase finale dell’azione monetaria: quella che prevede la moneta unica europea.
   A questo punto, la soluzione individuata dagli organismi europei è quella di rendere i cambi irrevocabilmente fissi, introducendo una moneta unica posta sotto il controllo di un autorità creata ad hoc: la Banca Centrale Europea (BCE).
   L’incoerenza a cui Freda fa riferimento è frutto dell’erronea convinzione da parte della nomenklatura economico - finanziaria europea che tutto debba essere subordinato alla stabilità dei prezzi – garantita dalla sola BCE – , la quale trae origine da due presunte certezze: la crescita regolare dell’economia e l’attenuazione di eventuali eventi perturbatori, attraverso l’emanazione di nuove regole istituzionali e sviluppando adeguate iniziative pubbliche.
   Naturalmente, queste certezze non tengono in debito conto che eventuali squilibri economici possono derivare da cambiamenti istituzionali e divari strutturali tipici delle economie europee.
   L’obiettivo della stabilità dei prezzi si basa sull’accettazione di cambi fissi, senza considerare che la conseguenza inevitabile del mancato ritocco dei cambi è il rialzo dei tassi di interesse; per di più, fino a che i tassi delle inflazioni nazionali non diventano uguali, interviene una variazione dei cambi reali e dunque un’accentuazione degli svantaggi competitivi dei paesi con il tasso di inflazione più elevato. Ciò può generare solo la recessione e un incremento dei divari tra le Nazioni comunitarie.
   L’attuale tendenza recessionista risulterà sempre più forte e rappresenterà la contropartita della volontà di impedire ogni deriva inflazionistica.
   Inoltre, se si tiene conto delle disposizioni relative al bilancio pubblico, è da prevedere che si svilupperà un circolo vizioso drammatico (diminuzione delle spese pubbliche, rallentamento della crescita del prodotto interno lordo, diminuzione del gettito fiscale, con conseguente incremento del deficit e aggravamento del peso dei debiti).
   Il rallentamento della crescita si trasformerà allora in vera depressione, con le indubitabili conseguenze politiche.
   Infine, l’interdipendenza fra le varie economie rende illusoria la distinzione fra paesi in regola e paesi in fase di sistemazione, poiché tutti pagheranno lo scotto in termini di recessione. Pertanto, gli obiettivi principali dell’Unione Europea, cioè la stabilità dei prezzi e la riduzione dei deficit pubblici, si rivelano in contrasto con le dottrine di politica economica, comprese quelle liberoscambiste.
   Poiché non pensabile che gli estensori del testo del trattato di Maastricht siano incorsi in un errore così macroscopico, dobbiamo ritenere che le proposizioni del trattato riflettano consapevolmente la volontà di immiserire in Europa le economie nazionali e di distruggerne lo Stato Sociale.
 
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   L’attuale struttura scolastica verrà abbattuta senza riserve né esclusioni, con l’abolizione dei titoli accademici. La scuola svolgerà rigidamente la funzione di avviamento al lavoro e la formazione scolastica dovrà essere subordinata alle esigenze dell’equilibrio economico popolare.
   Terminato il corso di studi comune a tutti, allo studente non sarà concesso di scegliere il tipo di studi che gli aggrada, secondo criteri egoistici, bensì sarà lo Stato a determinarne il prosieguo degli studi, sempre sulla base dell’equilibrio economico dello Stato.
   L’abolizione della proprietà privata provocherà la scomparsa degli istituti giuridici di regolamentazione dei rapporti tra privati, conseguentemente la giustizia avrà il compito di colpire i reati commessi ai danni dello Stato, in ogni sua manifestazione (reati contro la proprietà pubblica, contro la costituzione popolare dello Stato, contro l’equilibrio dei rapporti individuali).
   L’organizzazione attuale della magistratura verrà abolita e la giustizia criminale verrà esercitata da un Giudice Popolare.
   Le pene applicabili consisteranno nei lavori forzati e, per i crimini più gravi contro l’ordinamento popolare dello Stato e la proprietà pubblica, sarà prevista la pena di morte.
   Riguardo la politica estera, lo Stato popolare stringerà alleanza con gli Stati realmente anticapitalisti, favorendo con decisione tutti i movimenti di lotta contro i sistemi capitalistici.
   In luogo degli attuali organi posti a difesa del sistema borghese (esercito, polizia, carabinieri, etc.), verrà costituita una MILIZIA POPOLARE, composta solo da volontari, rigorosamente selezionati per i vari compiti che saranno chiamati a svolgere. La milizia avrà il compito di vigilare e prevenire – all’interno – il risorgere di eventuali ‘rigurgiti’ borghesi, mentre all’esterno sarà incaricata della difesa dello Stato popolare, collaborando anche con i movimenti di lotta anticapitalistica.
 
    “Lo strapotere privato, specialmente quando viene esercitato
      facendo uso arbitrario di prerogative proprie del potere pubblico,
      deve essere stroncato senza attenuazione dallo Stato”.
 
     IV. Déluge
 
 
“E’ inutile puntellare il muro che cadrà: non è forse preferibile affrettarne la caduta? Oltre a ciò la caduta sarà rovinosa per coloro che si affannano a impedirla.
Più rovinosa ancora: li schiaccerà tutti! Occorre, invece, mettersi dall’altra parte, dalla parte di coloro che premono, incitarli, dominarli, per accelerare ogni sforzo. Tu non hai il coraggio? Non occorre usare troppa spregiudicatezza…In fondo, chi sono i padroni del muro e delle terre al di qua del muro? Tu? Noi? No, di certo!”1             
 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            
   Giunto all’ultimo capitolo della Disintegrazione, intitolato – molto suggestivamente – “auspicî”, Freda rivolge il suo appello volto all’annientamento del sistema borghese sia a persone che hanno da sempre prestato il loro impegno nelle file dell’estrema destra, sia a coloro i quali hanno militato nelle file della sinistra antifascista.
   Noi siamo dei fanatici” – afferma Freda – dei fanatici che mirano ad essere sempre più lucidi”. Essere fanatico significa, per Freda, abbracciare un’idea e cercare di portarla a compimento, con ogni mezzo, subordinando tutto alla sua realizzazione. Ciò che consente di trasformare una semplice organizzazione sociale in Stato, secondo Freda, è determinato proprio dal perseguimento di un’idea, di un principio, che divengano totalizzanti nella vita di una comunità di individui.
   L’obiettivo di Freda prescinde dalla formazione politica e culturale degli uomini: davanti a un nemico comune e quindi a un obiettivo comune, la dimensione superumana è da intendersi superata. “Ciò assume per gli uni e gli altri i caratteri di una identica certezza, che a entrambi impone l’esigenza di una leale strategia di lotta comune: senza confusione di ranghi e di ruoli, ma nella considerazione della propria identità.” Identità che, per Freda, si rivelerà “non diminuita ma esaltata da una coerente unità operativa”.
   E questo fronte comune in nome della lotta al nemico mortale delle nazioni, il capitalismo, non dovrà limitarsi ad arrecare danni al sistema ma arrivare alla sua disintegrazione, per evitare che le componenti spezzate, una volta ricomposte, conducano nuovamente alla formazione del fenomeno sociale contro cui rivolgiamo il nostro odio implacabile.
   Stroncare un demone di tale portata comporta necessariamente non solo la definizione di specifici obiettivi, bensì la determinazione alla loro realizzazione con ogni mezzo utile all’abbattimento degli ostacoli che si porranno al cospetto del ‘soldato politico’, compreso i sistemi più drastici e risolutivi, proporzionati alla sontuosità dell’obiettivo finale.
   Per Freda“la purezza giustifica ogni durezza, il disinteresse ogni astuzia, mentre il carattere impersonale impresso alla lotta dissolve ogni preoccupazione moralistica”.
 
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Guardiamo ai fatti: Freda propone di realizzare, in chiave tattica e in un preciso momento storico quale il cosiddetto biennio rosso 1968 – 1969, un’onda d’urto anti-capitalistica composta da frange provenienti dalla sinistra rivoluzionaria e dalla destra radicale con l’obiettivo di travolgere le istituzioni borghesi.
   Prima di Freda, era stato lo scrittore russo Emmanuel Malynski ad auspicare, intorno agli anni ’20, una composizione delle ali estreme in chiave rivoluzionaria anti-borghese.2
   Il punto focale della questione è comprendere su quali basi concettuali si fonda la forza teorica del progetto frediano, relativamente ai punti di convergenza nelle strategie di lotta della sinistra rivoluzionaria e della destra radicale, non solo in Italia ma a livello europeo. Il nostro sforzo deve ora concentrarsi sull’individuazione dell’elemento comune alle due ideologie e della sua origine storico-filosofica.
   Per comprenderlo, dobbiamo rifarci al pensiero del più importante filosofo della scienza del ventesimo secolo, Karl Popper, autore dell’opera fondamentale “La società aperta e i suoi nemici”3.
 
 
 
 
 
   Secondo Popper, la storia dell’umanità e delle Idee si dividono in due parti. Da una parte troviamo i fautori della società aperta, che rappresenta la forma della normale esistenza umana, la cui condotta si basa sul calcolo e sulla libera volontà dei cittadini, elementi che contraddistinguono gli Stati non-totalitari. Dall’altra parte troviamo invece i nemici della società aperta in cui Popper inserisce Eraclito, Platone, Aristotele, Fichte ma soprattutto Hegel e Marx, accomunati dalla dottrina secondo cui lo Stato è tutto e l’individuo nulla; infatti quest’ultimo deve tutto allo Stato, sia la sua esistenza fisica che spirituale.
   . Destra e Sinistra nascondono al loro interno due realtà ideologiche eterogenee e inconciliabili, fonte di brutali dispute in seno alla medesima famiglia politica: chi difende la società aperta e chi la combatte. A Sinistra la sostengono i socialdemocratici, i democristiani, i progressisti, i riformisti ecc. mentre le sono ostili gli anarchici, i comunisti e gli altri movimenti dell’estrema sinistra. A Destra invece i suoi fautori sono i conservatori classici, i liberali, i repubblicani ecc. mentre la osteggiano i fascisti e una certa estrema destra tradizionalista.
   Le ali estreme sono pertanto caratterizzate dal rifiuto radicale della società aperta e dei fondamenti antropologici e filosofici su cui questa si basa. Per Popper l’ideologia staliniana si spiega perfettamente con la dottrina di Marx, proveniente direttamente da Hegel, a sua volta seguace di Platone. La genesi del fascismo europeo segue la medesima via, solo che da Hegel non passa attraverso Marx ma attraverso hegeliani di diritto fino a Ernst Jung (“L’umanitarismo, ovvero l’idea del genere umano…non è il regolatore della storia”), Spengler (“Virilità (manhood) o è un’espressione zoologica o è una parola vuota”) e il nazista Rosenberg (“L’intima vita dell’uomo risultò scardinata…quando un movente estraneo fu impresso nella sua mente: salvezza, umanitarismo e la cultura dell’umanità”).1
 
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    Sia l’estrema ala sinistra marxista, sia l’estrema destra fascista fondano le loro filosofie politiche su Hegel.
    La filosofia hegeliana, la cui potentissima influenza si rivelerà determinante nella nascita dei regimi totalitari moderni, trae la sua linfa vitale proprio da Platone, sulle cui idee Freda basa le sue convinzioni sul vero Stato, sulla sua assoluta autorità morale, che supera ogni moralità individuale, ogni coscienza. 
   Il platonismo di Hegel rappresenta il collegamento tra lo stesso Platone e il totalitarismo moderno.2
   La maggior parte dei totalitari moderni, secondo Popper, sono assolutamente ignari del fatto che le loro idee possono essere fatte risalire a Platone (particolare che Freda ha invece ben presente), mentre sono consapevoli del loro debito nei confronti di Hegel.
   A tutti Hegel ha insegnato a venerare lo Stato, la storia e la nazione.
   Al pari di Platone, Hegel vede lo Stato come un organismo dotato di un’essenza cosciente e pensante, la sua ragione o “Spirito”. Questo Spirito, la cui vera essenza è attività, è nello stesso tempo il collettivo Spirito della Nazione che forma lo Stato e ne determina il suo segreto destino storico: ogni nazione che voglia emergere all’esistenza deve affermare la propria individualità o anima salendo sulla Scena della Storia, vale a dire combattendo le altre nazioni; obiettivo della lotta è la dominazione mondiale.
   Per questa ragione Hegel sostiene che la guerra sia un principio giusto per modificare lo stato delle cose.
   Influenzata dall’hegelismo, la sinistra rivoluzionaria sostituisce alla guerra delle nazioni, la guerra delle classi, mentre l’estrema destra sostituisce ad essa la guerra di razze; ma entrambe, seppur apparentemente contrarie lo seguono più o meno coscientemente, mostrando così profonda unità metafisica.
     In entrambi i casi, l’idea fondamentale è che la degenerazione, soprattutto delle classi superiori, è alla radice della decadenza politica (cioè dell’avanzata della società aperta). Marx sostituì allo “Spirito” di Hegel la materia e gli interessi materiali ed economici. Allo stesso modo, il razzismo sostituisce allo “Spirito” di Hegel qualcosa di materiale, la concezione quasi-biologica del Sangue o della Razza. Invece dello “Spirito”, è il Sangue l’essenza auto-sviluppantesi; invece dello “Spirito” è il Sangue il Sovrano del mondo che si dispiega sulla Scena della Storia; e, invece del suo “Spirito” è il Sangue di una nazione che ne determina il destino.2
   Naturalmente, sia i comunisti ortodossi che i rappresentanti dell’estrema destra convenzionale (fascista o no) rifiutano sdegnosamente tale accostamento gridando allo scandalo, i marxisti bollando gli hegeliani come reazionari e a destra rifiutando il marxismo in quanto espressione di sovversione.
      Grazie all’ignoranza e alla mancata consapevolezza delle comuni origini del proprio pensiero, i nemici della società aperta di sinistra, spesso, nel passato come ai giorni nostri, si sono alleati con i difensori di questa società, con il pretesto superficiale di costituire un fronte comune contro la destra. La stessa cosa vale per i nemici della società aperta di destra: l’idealismo soggettivo di taluni conservatori (sempre liberali) li spinse a concludere alleanze contronatura con questi ultimi, allontanandosi così dalle proprie autentiche radici.
   Il grande errore delle destre e delle sinistre storiche è consistito e consiste ancora oggi, nel cadere nella trappola del settarismo, in cui la vera identità dei nemici da sempre della società aperta si frantuma in una forma alienata e scissa, che ha provocato – quale orrore! – una guerra fratricida tra i rappresentanti dei due rami della medesima concezione del mondo.
  
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   Comune denominatore dei nemici della società aperta è l’idea dell’Irrazionale, che consiste nel rifiuto di considerare come realtà primordiale la Ragione Umana critica e le conseguenze umaniste del pensiero filosofico di Kant.    
   L’Irrazionale è anche Essenza, Scopo, Destino, qualcosa che supera quella libertà individuale che concentra in sé tutta la razionalità e serve come base alla costruzione dell’autentica società aperta, in cui non esisterà altra misura all’infuori dell’Uomo.
   Mentre i marxisti e i conservatori, per giustificare le proprie posizioni ideologiche, insistono sulla razionalità e sull’umanesimo delle proprie idee, cercando così di confutare le accuse dei liberali alla Popper, Freda riconosce l’orientamento a-razionale e persino non-umano della propria dottrina, in cui risultano chiari gli influssi di pensatori tradizionalisti quali Julius Evola3 e René Guénon4, sostenitori per eccellenza dell’ideologia anti-umanista e anti-moderna.
   L’eredità hegeliana è presente in tutte le sue sfaccettature: il richiamo al fattore non-umano, il rifiuto totale del valore della ragione e dell’individuo, l’affermazione dell’ineguaglianza naturale degli uomini, il richiamo alla società gerarchica, il riconoscimento del declino inevitabile della civiltà. 
   E’ fuor di dubbio che i fascisti si oppongano alla società aperta ed è altrettanto certo che il substrato delle loro idee vada ricercato non-umanista e non-razionalista (Eraclito, Platone, Hegel, Spengler ecc.). Il loro idealismo è sempre obiettivo: miti di Nazione, Chiesa, Stato, Razza, Impero, Superuomo e Tradizione, che schiacciano il piccolo idealismo moderato e soggettivo dei personaggi della società aperta di Popper, poiché la dinamica della realizzazione del Destino da parte di ognuno mette in luce le differenze gerarchiche. Questo causa, a sua volta, il predominio dei forti sui deboli, dei gradassi sui timidi, limitando fortemente la libertà individuale.5
   La versione marxista della dottrina hegeliana propone invece una forma di idealismo particolare, tutto incentrato sulla classe proletaria e una concezione del mondo materialistica. E’ la stessa tendenza totalitaria riscontrabile già in Eraclito e Platone, ma rivestita da una nuova forma concettuale: il Destino universale si identifica con il comunismo, la dialettica del processo storico si realizza attraverso i processi produttivi, il soggetto centrale del compiere il Destino è il Sé collettivo della classe operaia. In pratica, la sostanza della dottrina hegeliana resta la stessa e, anche se espressa con un linguaggio differente, lascia trasparire i tratti del nemico della società aperta, con la differenza che la sinistra sostituisce al concetto di casta dominante quello della classe e il materialismo obiettivo totalitario schiaccia anche in questo caso il piccolo materialismo soggettivo dell’uomo medio. L’URSS infatti non presentava gli elementi tipici della società aperta e la presenza nel  comunismo marxista dell’idea hegeliana della guerra giusta, è dovuta non solo alla profonda influenza di Hegel su Marx, ma anche di quella platonica sui socialisti utopici che hanno preceduto Marx.   
   Ma l’eredità ideologica che i fascisti e i comunisti del XX secolo hanno in comune non è costituita solo dal pensiero di Hegel. Sorel, padre del sindacalismo rivoluzionario, Reuss, Pareto e Proudhon, gli illuministi e gli occultisti europei possono essere rivendicati dai nemici della società aperta, a sinistra come a destra.
   Non a caso il maestro spirituale dello stesso Guénon, che definì la sua filosofia satanismo incosciente, fu Ivan Agueli, socialista svedese e il suo iniziatore in Massoneria Theodor Reuss in persona, occultista, massone, agente dei servizi segreti tedeschi  e ideologo dell’anarchia.
 
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   Arrivati alla conclusione del presente studio, è possibile affermare che alla realizzazione di un obiettivo di straordinaria portata non può che sottendere un progetto politico altrettanto straordinario: la purificazione delle dottrine storiche dei nazionalisti e dei comunisti dai residui di pregiudizi eterogenei provenienti dalla confusione con elementi soggettivi dovuti ad alleanze contronatura sotto l’egida della Destra e della Sinistra che, fino a questo momento, hanno determinato quell’impotenza pratica di realizzare ciò che deve essere realizzato: “arrivare sino alla foce”. Le connotazioni anticomuniste e antifasciste possono e devono essere superate in virtù della dottrina filosofica che abbiamo sviscerato in queste pagine.
   L’escatologia sociale ed economica dei marxisti si unirà alle escatologie di altra sorta – religiosa, razziale, gnoseologica, statale, nazionale – e il tutto diventerà sintesi ideologica universale.
 
 
   Con buona pace degli amici della società aperta, gli eredi di Kant, di Popper, i liberali, i razionalisti, uomini vecchi tout court, il  fronte nazionale – l’uso del termine non è casuale – auspicato da Freda travolgerà il sistema capitalista, nella piena convinzione di trovare al di là del baratro terreno fertile per la rinascita nazionale.
   Acquisteremo grandezza e rango storico solo seguendo il compito affidatoci dal destino –  “ecco il perfetto quadro d’un destino irrimediabile, a emblemi netti! C’è da pensare che il Diavolo quello che fa, lo fa sempre bene!” – sogghigna Baudelaire.
  
 
“La qualità, sia degli uomini che delle opere,
  sopra ogni altra cosa”.
 

1 Tratto dall’articolo di C. Baudelaire, Quelques caricaturistes étrangers, pubblicato in Le Présent del 15 ottobre 1857 e in L’Artiste del 26 settembre 1858. Il testo è pubblicato in italiano nel volume: C. Baudelaire, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981, pp. 177-179
2 Franco G. Freda, Monologhi (a due voci). Interviste 1974-2007, Edizioni di Ar, Padova 2007
 
 
 
1 Mi sembra significativo, al riguardo, quanto sostenuto da Freda nello scritto Intorno al terrorismo dei minimi termini, pubblicato in appendice alla III edizione (1980) de La disintegrazione del sistema: “..ho l’impressione che l’annientamento di questo sistema rimanga un obiettivo irrealizzabile attraverso la violenza terroristica. Una strategia di annientamento dell’avversario non si può impostare sul terrorismo. Può essere, quest’ultimo, considerato solo entro un quadro tattico, e quando il processo che mira alla dissoluzione delle forze avversarie sta per concludersi vittoriosamente. Cioè come operazione di bonifica destinata a purgare il popolo  – attraverso la paura che essa suscita – degli irriducibili consensi residui di cui gode un’oligarchia agonizzante. Inteso ad accelerare i tempi, esso deve adottare strumenti differenziati, discriminanti e – sopra tutto – risolutivi. Solo in questa prospettiva, a mio parere, assume un significato e diventa lecito: per eliminare definitivamente delle sacche di consenso. Inoltre, anche per un obiettivo così definito il terrorismo impone – per risultare efficace – un impiego massiccio di forza. Se l’avversario non viene annientato in un breve arco di tempo, la scorciatoia terroristica diviene un labirinto nel quale chi entra si smarrisce. E gli attacchi di intensità ridotta determinano effetti che invece di logorare e consumare l’avversario lo tonificano. Ne deriva allora un capovolgimento di situazioni: l’avversario giunge ad alimentarsi proprio di quella violenza che si proponeva di distruggerlo”.
* Testimonianza di un magistrato, dietro garanzia dell’anonimato, contenuta in N. Rao, Il sangue e la celtica, Sperling & Kupfer 2008
[1] Franco G. Freda, In alto le forche! Il ’68 e il nichilismo, Edizioni di Ar, Padova 2008
2 Cfr. Franco G. Freda, Monologhi (a due voci). Interviste 1974-2007, Edizioni di Ar, Padova 2007, quando afferma: “Noi riteniamo che l’Europa debba anzi tutto guarire dal male statunitense –  ma non riteniamo assolutamente che la terapia efficace consista in qualche attentato alle basi militari USA che presidiano l’Europa. L’unica terapia radicale può derivare da un rifiuto in interiore dei ’valori’ della civilizzazione USA, da un ritorno consapevole all’essenza dei valori originari della cultura europea”.
3 Da ogni dove si celebra il modello imperante, il demoliberismo anima e spirito del ‘libero mercato’. L’omologazione planetaria – Mondialismo – dei governi di tutti i paesi appare ormai come un processo irreversibile. E di processo irreversibile si deve pure parlare circa la demonizzazione perpetrata a danno di chi, persona, comunità politica, comunità religiosa, organizzazione o stato tenta di opporsi a questa tremenda dittatura mondialista. Repressione giudiziaria o, nella migliore delle ipotesi, interdizione da tutti gli apparati di comunicazione sociale per le persone, le comunità e le organizzazioni che dall’interno dei vari paesi occidentali propugnano modelli alternativi; guerra, morte, distruzione, embargo economico, sanzioni, isolamento per gli Stati che nei fatti rappresentano un’effettiva alternativa di sistema. Si pensi a Cuba che, dal 1962, rappresenta il caso più sintomatico, ma anche all’Iran, al Sudan, all’Iraq, alle repubbliche della ex Yugoslavia o a quelle dell’ex Unione Sovietica. v. il testo Nazionalcomunismo, AA.VV., Società Editrice Barbarossa 1996
1Secondo Nietzsche, il cui pensiero è particolarmente apprezzato e citato da Freda, è la morale a pretendere di conservare inopinatamente e di mantenere in vita tutto ciò che la storia ha già condannato come obsoleto, ciò che è “malato”, ciò che è “maturo per il tramonto”, fallito sul piano dei fatti, creando un nuovo ambito per definizione distinto dalla realtà, che è appunto quello dell’ideale, del dover-essere, del valore, attribuendogli un valore atemporale e universale. Con tali attributi la morale cerca di tutelare e di sottrarre alla morte le esperienze che cessano di essere vitali: quando esse erano davvero viventi, non c’era alcun bisogno di affermarne il valore. v. Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Newton Compton 1997, trad. di Paolo Santoro.
2 Da La paganità di un sodalizio di Giovanni Damiano, contenuta in Franco G. Freda, I lupi azzurri. Documenti del Fronte Nazionale, Edizioni di AR, Padova 2000
3 V. Marx – Engels, Il Manifesto del partito comunista, trad. di Domenico Losurdo, Laterza 1999. Le riforme realizzate mediante il movimento dal basso e gli interventi dall’alto saranno sempre ben poca cosa fino a quando il potere politico continuerà ad essere il comitato d’affari della borghesia. Quelle stesse limitate riforme potranno sempre essere annullate dalla classe dominante, favorita dal fatto che l’organizzazione chiamata a promuovere la resistenza contro il dispotismo padronale viene ad essere spezzata dalla concorrenza fra gli stessi operai. Un mutamento radicale e irreversibile delle condizioni sociali e politiche presuppone – sottolinea Marx già nel 1844 – una rivoluzione politica con un’anima sociale. L’organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico deve mirare – chiarisce il Manifesto – alla conquista del potere politico.
4 Alla domanda: “cosa riscopre di Nietzsche?”, Freda risponde : “La profondità dell’analisi – della decadenza e dell’uomo della decadenza. Credo che tale analisi sia la più completa finora apparsa; analisi – soprattutto del veicolo umano di tale decadenza – come anche delle possibilità, solo intraviste, di una restaurazione aristocratica”.
5 Pier Paolo Pasolini, in un’autointervista sul Corriere della Sera, il 25 marzo 1975, sostiene inoltre che “nel potere – in qualsiasi potere, legislativo ed esecutivo – c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati”. Da M. Caparra e G. Semproni, Neri!, Newton Compton 2011
1 Questa visione di Freda ci fa ribollire il sangue per il suo realismo. Se pensiamo che anche per Nietzsche, la stessa rivendicazione di un diritto presenta un aspetto ingenuo e ipocrita: infatti nessun diritto sarà mai riconosciuto se non ha la potenza di farsi riconoscere; se ha questa potenza, il fatto di presentarsi soltanto come diritto lo indebolisce anziché rafforzarlo.
[2] A conferma della ragionevolezza della tesi frediana, si pensi alla critica rivolta da M. Bakunin a Marx. L’anarchico russo riteneva che il nucleo centrale del marxismo consistesse nella conquista dello stato realizzata attraverso la centralizzazione del potere. Nel gennaio 1872, Bakunin scrisse a proposito del filosofo tedesco: “Marx è un comunista autoritario e centralista. Egli vuole ciò che noi vogliamo: il trionfo completo dell’eguaglianza economica e sociale, però, nello stato e attraverso la potenza dello Stato, attraverso la dittatura di un governo molto forte e per così dire dispotico, cioè attraverso la negazione della libertà”. A sostegno invece dell’estraneità a qualsiasi concezione burocratica del potere dei lavoratori da parte di Marx, si è espresso Marco Ferrando, nella sua interessante L’altra Rifondazione, Ed. GiovaneTalpa, Milano 2003, di cui consiglio la lettura.
1 Franco G. Freda, Monologhi (a due voci). Interviste 1974-2007, Edizioni di Ar, Padova 2007
2 Dal saggio ‘Un comunismo dorico’, di Francesco Ingravalle, contenuto in Franco G. Freda, La disintegrazione del sistema, Edizioni di AR, Padova 2010
1 Nella prima delle Due lettere controcorrente, scritta nel giugno del 1971, Freda a tal proposito afferma “..di aver considerato senza equivoci di sorta il capitalismo e il socialismo come semplici forme economiche, incapaci di avere la funzione di visioni del mondo e del destino dell’uomo.
Così come sono certo di avere manifestato la mia avversione verso questo tipo di uomini senza razza, senza forma, senza rango – in una parola: senza senso – che capitalismo e socialismo, assumendoli a soggetto dei loro sistemi, esauriscono nel quadro di un genere zoologico degradato.”
2 v. Franco G. Freda, I lupi azzurri. Documenti del Fronte Nazionale, Edizioni di AR, Padova 2000, pp. 77-78
1 Franco G. Freda, I lupi azzurri. Documenti del Fronte Nazionale, Edizioni di AR, Padova 2000
2 dal latino eversionem, da eversus p.p. di evertere, volgere sottosopra, abbattere, rovesciare. L’atto e l’effetto dell’abbattere, annientare acquisiscono qui un significato altamente rappresentativo del personaggio Freda, che ha la forza di distruggere.
1 v. Franco G. Freda, I lupi azzurri. Documenti del Fronte Nazionale, Edizioni di AR, Padova 2000, pp. 78-79
2 Ibidem, pp. 80-81-82
1 Franco G. Freda, In alto le forche! Il ’68 e il nichilismo, Edizioni di Ar, Padova 2008
2 E’ lo stesso Freda ad ammettere che, all’epoca della stesura de La disintegrazione del sistema, non era a conoscenza dei due saggi di Malynski, Fedeltà feudale – dignità umana e Il proletarismo, pubblicati rispettivamente nel 1976 e nel 1979 dalle Edizioni di AR
3 Cfr. Nazionalcomunismo, AA.VV., Società Editrice Barbarossa 1996, p. 225-226
1 Mai come in questo momento preciso momento storico, è evidente che la dottrina liberale che concepisce lo Stato Mondiale come Mercato Mondiale, sia diventata l’idea dominante della nostra civiltà. E questo presuppone la distruzione finale delle nazioni come resti dell’epoca passata, come l’ultimo ostacolo di fronte all’espansione irresistibile del mondialismo. Ma la dottrina mondialista è la forma perfetta e compiuta del modello di società aperta. E’ il motivo per cui i nemici di questa società sostengono tutto ciò che le è contrario, tentando contemporaneamente di riportare il concetto utilizzato a un livello più elevato e radicale, verso le cime vertiginose dell’Irrazionale. Cfr. Nazionalcomunismo, AA.VV., Società Editrice Barbarossa 1996, p. 234
2 K. Popper, Contro Hegel, Armando Editore 1997, p. 24
 
3 E’ interessante in questo contesto menzionare il fatto che Evola abbia influenzato in una certa misura il fascismo italiano e un poco quello tedesco, pur essendo stato lui stesso in gioventù influenzato da Hegel. Hegeliano pure lui fu Giovanni Gentile, l’altro teorico del fascismo. Ma Evola, secondo Guénon ha superato Gentile e gli altri hegeliani di destra, arrivando alle formulazioni estreme delle massime tradizionaliste.
4
5 v. Nazionalcomunismo, AA.VV., Società Editrice Barbarossa 1996, pp. 228-230
 

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